La crisi che seguirà la pandemia sarà diversa da quella del 2008, quest’ultima è stato un terremoto causato da movimenti tettonici avvenuti nel sottosuolo della finanza che arrivavano da lontano: dal 1971 e dalla sospensione degli accordi di Bretton Woods. La crisi che abbiamo davanti è un maremoto. Il terremoto ha grande forza iniziale poi si assesta, lo tsunami aumenta la sua forza con il tempo sino a un picco.

In questi primi mesi, si è discusso molto di politica monetaria, di interventi pubblici e di ricette, più o meno miracolose, per dare resilienza al sistema economico. È stato come salire su qualche collina al vedere il maremoto arrivare: saggio ma non definitivo. Nel medio termine saranno le aziende e i manager che dovranno capire come dare la spinta al sistema economico.

I manager che vogliono pensare in modo strategico devono, quindi, chiedersi cosa fare nei prossimi 18/36 mesi, sapendo che l’onda anomala sta arrivando e che passata il paesaggio non sarà più lo stesso. Questo pone due domande: le teorie proposte dalla scienza manageriale saranno ancora valide nella prossima normalità? Quale ruolo avranno i manager in questa nuova era?

Fa pensare il fatto che agli albori della pandemia, la scienza manageriale abbia perso il teorico e il praticante migliori del secolo scorso. Jack Welch, morto a marzo, ha impersonificato il manager capace di rivoluzionare un’azienda, portarla al successo e fare ricchi i suoi proprietari. Essendo la General Electric una public corporation questo ha significato arricchire moltissimi piccoli azionisti che negli ultimi vent’anni del secolo scorso hanno seguito con interesse diretto le vicende di un grande manager, divenuto personaggio pubblico.

Clayton Christensen, il più influente teorico di management, morto a gennaio, usava ricordare ai giovani professori il compito di creare buone teorie e non regole generiche o precise correlazioni. Usare le “best practices”, ha scritto, è come dare la stessa medicina a tutti i malati e pensare che guariscano; usare le “correlazioni” è come giocare alla roulette. Le buone teorie sono quelle che spiegano in modo semplice e breve un rapporto contestualizzato di causa-effetto. Clayton ci credeva talmente tanto da perdere la sua proverbiale flemma per il dilagante utilizzo impreciso del termine “disruption”. Questo lo portò a scrivere nel 2011 un articolo in cui rispiegava la teoria a vent’anni dalla sua prima apparizione pubblica.

Non sempre la teoria manageriale segue le idee di Christensen. Dennis Tourish ha recentemente pubblicato Management Studies in Crisis, dove evidenzia la crisi della scienza manageriale sempre meno rilevante per i manager e sempre più oscura e complessa. “Pubblichiamo – scrive Tourish – intuizioni banali convertite in teorie che sembrano tradotte dall’inglese all’esperanto e poi ritradotte”: non c’è quindi da meravigliarsi che i manager non le utilizzino, anzi neppure le leggano e si limitino a ricorrere a costose consulenze che gli forniscono buone pratiche e qualche modello basato su teorie degli anni 80.

Di buone teorie manageriali, come dimostrano quelle di Christensen, ce n’è molto bisogno perché i manager dovranno affrontare nei prossimi anni problemi e ambienti competitivi nuovi e sconosciuti. Come sapremo affrontare questa sfida risponderà alla prima domanda: i prossimi Welch avranno buone teorie su cui basare le proprie (difficili) decisioni?

Lo tsunami che vediamo sulla battigia risponderà alla seconda domanda: quale sarà il ruolo del management in questa nuova era. Negli ultimi dieci anni i tassi bassi e la politica espansiva delle banche centrali hanno facilitato molto il mestiere del manager: il più lungo periodo espansivo della storia del capitalismo unito alla volontà e alla possibilità politica di evitare una crisi ha reso il mare della competizione calmo e le conseguenze di avere cattivi manager quasi ininfluenti. La prossima normalità avrà impatti duri sull’economia, sui consumi, sulla crescita internazionale e durissimi su alcuni settori: saranno necessari manager bravi per navigare questo mare tempestoso. Sarà necessario capire come cambieranno i consumi, come si ridisegneranno le supply chain internazionali, come evolverà l’approccio verso il risparmio e la socialità: questi cambiamenti rappresenteranno opportunità in molti settori.

Questa sfida non riguarda i governi e la politica, ma chiama direttamente in causa imprenditori, manager e studiosi della scienza aziendale. Questi sorprendentemente non ne parlano, quasi ignorando che sarà un banco di prova duro e definitivo: il management come professione è nato negli anni 20 del secolo scorso, dopo cento anni deve dimostrare di essere ancora una componente utile della società. Altrimenti l’evoluzione ne sentenzierà l’irrilevanza come è successo per tante altre professioni umane.

Bernardo Bertoldi (Docente di Family Business Strategy, Università di Torino – bernardo.bertoldi@unito.it)