Da qualche anno i grandi ricchi americani stanno impegnando i loro patrimoni nell’iniziativa del “Giving pledge”. Giving pledge significa letteralmente “impegno a donare” ed è un’iniziativa, avviata da Warren Buffet e Bill Gates, che chiede ai miliardari di impegnarsi a donare buona parte della propria ricchezza in vita (senza un impegno per la metà non si può partecipare). Il Giving pledge ha la sua base teorica nel Gospel of wealth di Andrew Carniegie, che sostiene la necessità di gestire bene la propria attività di beneficienza mentre si è in vita (fatto che negli Stati Uniti ha anche qualche non disprezzabile vantaggio fiscale).

Carniegie ha vissuto al termine del secolo scorso e il suo è un tentativo di proporre una soluzione americana, diversa da quella marxista proposta 20 anni prima del Gospel, ai grandi divari generati dalla rivoluzione industriale.
L’errore di fondo di Carniege, replicato ai giorni nostri da Buffet e Gates, è il motivo per cui bisogna donare: la ricchezza passata ai figli è un male. È su questo che si fonda l’idea di donare tutta la propria ricchezza salvo quanto serve per una vita dignitosa per la famiglia. E l’errore è deleterio se a compierlo sono imprenditori che guidano imprese e che potrebbero dar vita a famiglie imprenditoriali che continuerebbero a guidare queste aziende generando ricchezza per loro ma per molti altri, i dipendenti e i fornitori in primis.

La ricchezza estratta dall’impresa e donata alla società genera meno benessere per la società stessa di quanto fanno investimenti e salari prodotti dalla ricchezza mantenuta e gestita in azienda. Non è un caso che in Europa l’iniziativa non stia avendo molto successo. Quale è il motivo? In modo meno pomposo gli imprenditori europei applicano l’Education pledge: si impegnano a passare ai giovani lo spirito imprenditoriale, il vero tesoro delle famiglie imprenditoriali e a educarli al mantenimento e alla protezione della ricchezza secondo il principio per cui: “Non si vive della propria eredità, ma per la propria eredità”.

Nelle famiglie imprenditoriali, si potrebbe obiettare, ci sono casi disastrosi di patrimoni immensi dilapidati e di figli inetti. Certo! Educare alla ricchezza è più difficile che liberarsene. Come afferma lo stesso Carniege: “Ci sono casi di giovani che amministrano bene la ricchezza e svolgono un gran servizio alla comunità. Loro sono il vero sale della terra e sono tanto apprezzabili quanto rari”. La buona notizia è che questi giovani non sono frutto del caso, ma di famiglie imprenditoriali che funzionano. L’educazione imprenditoriale permette ai giovani di “far lavorare” il patrimonio ricevuto, di proteggerlo e di passarlo alle generazioni successive.

Volendo cambiare il punto di vista, la difficoltà vera non è passare la ricchezza ma formare chi la deve ricevere a possederla. Si tratta di una formazione particolare per alcuni motivi. Primo, non viene venduta in corsi standard perché non sono moltissimi coloro che ne hanno bisogno: non ci sarebbe nessuna utilità di farne un corso universitario. Secondo, ogni famiglia ha il proprio modo di relazionarsi con il proprio patrimonio, è quindi necessario che questa formazione sia ritagliata su misura una volta che si è ben compresa la filosofia di possesso del patrimonio. Terzo, non si tratta di corsi e lezioni frontali ma di un processo di apprendistato. Deve essere iniziato quando l’apprendista è giovane per evitare che si ritrovi ricco tutto di colpo a metà della vita, deve essere continuo in modo che si possa imparare dalla pratica in contesti e momenti diversi, deve prevedere che l’apprendista possa sbagliare e questo ha un costo, anche finanziario.

Può sembrare difficile e pericoloso, ma è utile ricordare che la miglior certezza del mantenimento di un patrimonio nel tempo è la temperanza, la saggezza e la capacità di possederlo: talenti con cui non si nasce, ma che si apprendono.