La dimensione delle aziende italiane è da sempre oggetto di discussione e di preoccupazione, dai distretti industriali alle multinazionali tascabili si sono trovati modi diversi per spiegare una certa forma di nanismo. Il nocciolo della questione è che le nostre imprese, anche quelle di successo e internazionalizzate sono sempre piccole rispetto ai colossi concorrenti stranieri.

La preoccupazione per la dimensione torna ad animare il dibattito ogni volta che un’impresa italiana viene acquisita da un concorrente internazionale o che un qualche settore tecnologico non riesce a svilupparsi in Italia perché manca una grande azienda che lo traini.

È indubbio che molte imprese italiane devono affrontare il Passaggio Dimensionale, e quando sono aziende familiari questo è anche l’ingrediente più importante per un buon passaggio generazionale.

Per contribuire a capire come affrontare il passaggio dimensionale può essere utile dare una sbirciata alla teoria manageriale.

Negli anni sessanta, Christensen, Andrews e Bower, titolari del corso Business Policy ad Harvard e precursori di Porter, spiegarono come le aziende crescono definendo i concetti di economia di scala e di scopo.

Le economie di scala si hanno quando produrre una maggior quantità di beni ne abbassa il costo. Le grandi multinazionali americane del dopoguerra hanno basato la loro crescita su questa idea e la teoria è stata resa popolare tra i CEO da Henderson, il fondatore di BCG, che ha spiegato loro l’importanza della standardizzazione nella produzione, delle curve di apprendimento, dell’essere tra i primi tre in ogni settore (la famosa matrice di Boston).

Nelle università spieghiamo spesso le economie di scala con la Ford T, monoprodotto e monocolore prodotta in grandi quantità e a bassissimo prezzo, ma in realtà le declinazioni sono oggi più sofisticate e spesso multibrand.  Unilever, ad esempio, essendo il più grande produttore al mondo di gelati (Algida in Italia) può offrire una buona qualità ed avere un costo di produzione più basso dei suoi concorrenti. Uniliver offre al mercato anche i gelati di Ben&Jerry, Grom e Kinder Ferrero: il vantaggio competitivo è sempre dato dalla scala ma siamo lontani dal fordiano: “puoi avere la Ford T del colore che vuoi basta che sia nero”.

Per perseguire un vantaggio competitivo basato sulle economie di scala devi avere accesso ad un grande mercato di sbocco e a un grande mercato finanziario per fare gli investimenti in fretta. Questi due elementi spiegano perché in Italia è, da sempre, più difficile basare il proprio vantaggio competitivo sulle economie di scala.

Le economie di scopo si hanno quando con la stessa struttura manageriale e manufatturiera si possono produrre diversi tipi di prodotto. Le conglomerate degli anni ottanta sono state i primi esempi di applicazione e il concetto di core competence e di corporate strategy sono stati i framework pratici con cui i manager hanno ragionato su come conseguire economie di scopo. Bosch, ad esempio, sfrutta la sua core competence ingegneristica e di innovazione, soprattutto nella sensoristica, offrendo più prodotti in diversi settori industriali: dallo smart home all’automotive, dalle smart city a sistemi di produzione connessi.

Per perseguire un vantaggio competitivo basato sulle economie di scopo devi avere processi manageriali ottimizzati e procedure ripetitive che ti permettano di sviluppare una core competence in diverse declinazioni per diversi settori: non esattamente qualità che vanno a braccetto con creatività e gusto per il prodotto unico tipici italiani.

Gli imprenditori italiani rappresentano un’eccezione che i padri fondatori della strategia aziendale non avevano previsto. Le nostre aziende di successo non crescono per economie di scala o di scopo: crescono in settori in cui queste non hanno effetto. La prova è che inventano al loro interno i macchinari di cui hanno bisogno perché non esistono sul mercato. Nessuno li produce perché il settore è troppo piccolo per attrarre l’interesse di un produttore di macchinari. Quando il settore è sufficientemente grande ed esistono macchinari disponibili per tutti vince chi ne può comprare di più non chi ha la creatività per inventarli: ed ecco perché le nostre imprese, anche quando sono leader mondiali, lo sono in settori piccoli. Questo limita la dimensione assoluta delle nostre imprese ma, per fortuna, i settori piccoli sono moltissimi e la nostra creatività inesauribile.

Giovanni Rana, ad esempio, è diventato il primo produttore di pasta fresca negli USA battendo Buitoni, marchio della Nestlè multinazionale che basa il suo successo in diverse categorie sulle economie di scala. Gianluca Rana, figlio del fondatore e forza imprenditoriale dietro l’espansione negli USA, ha inventato e costruito i macchinari necessari per produrre in modo flessibile e con qualità superiore un’amplissima gamma di prodotti.

Un altro esempio è Brembo: dove gli ingegneri che devono sviluppare una nuova auto vanno in pellegrinaggio per capire come inserire nel nuovo prodotto il sistema frenante. Brembo è una grande multinazionale con i suoi più di 2,6 miliardi di fatturato e stabilimenti ovunque nel mondo, ma non così grande se confrontata con Bosch (47 miliardi), Denso (42), Magna (35), Valeo (19). Come si fa a produrre profitti sopra la media in un settore che distrugge valore da anni e dove essere acquisti è un attimo? Non sono, neanche in questo caso, economie di scala o di scopo: la fonte del vantaggio competitivo è sapere meglio di chiunque al mondo tutto sui sistemi frenanti dalla lavorazione del metallo alla progettazione. I concorrenti che hanno seguito la teoria delle economie di scopo, hanno abbandonato parte della catena del valore, la fonderia ad esempio, per concentrarsi sulle loro core competence e poterle applicare in diversi settori. In Brembo da quando Alberto Bombassi, giovane di seconda generazione alla ricerca di un’evoluzione per la sua officina di famiglia, ha iniziato a produrre sistemi frenanti la core competence è stata sapere tutto di come si fanno partendo dalla fonderia, progettarli con creatività italiana e producendoli con gusto italiano. Si, in Italia si possono fare sistemi frenanti belli: per capirlo basta dare un’occhiata alle fossette che fanno capolino dalle ruote delle auto premium fatte ovunque nel mondo.