Il consiglio di amministrazione di Unilever deciderà nel prossimo mese come procedere a una semplificazione della struttura societaria e organizzativa che potrebbe portare la società a lasciare il Regno Unito. Certo Brexit sarà uno degli input del processo decisionale ma la causa prima è un’altra.

Circa un anno fa lo stesso consiglio di amministrazione di Unilever ha respinto al mittente, la Kraft Heinz di Buffet e 3G, un’offerta di acquisto di 143 miliardi di dollari dichiarando di non vederci alcun vantaggio finanziario o strategico per gli azionisti. Da quel giorno il top management Unilever ha dovuto reagire mettendo in atto una serie di azioni volte a semplificare la governance e ad aumentare il ritorno per gli azionisti: abbandonare la struttura con il doppio headquarter e la doppia quotazione non può che essere uno dei punti in agenda. Pensare, però, che siano a rischio i 3.500 posti di lavoro inglesi certamente è un’esagerazione o una strumentalizzazione.

Nel 1983 Theodore Levitt ad Harvad teorizzò la futura nascita di aziende globali che avrebbero prodotto e venduto ovunque ed in modo standardizzato, distribuendosi sostanzialmente in modo omogeneo in tutte le aree del mondo. Queste aziende sarebbero state geneticamente diverse dalle aziende multinazionali, che invece hanno l’attività principale in un continente e si espandono in modo significativo almeno in un altro. Dopo più di trent’anni, le aziende globali sono poche mentre le multinazionali sono diventate moltissime e hanno raggiunto strutture societario, fiscali, produttive e commerciali complesse.

Le multinazionali hanno sedi fiscali e legali diverse, footprint produttivi di decine di stabilimenti, molte decine di branch commerciali, centri di ricerca sparsi nelle aree più creative del mondo. Per gestire questa complessità, dai tempi di Levitt, è nato un tipo di manager globale che ha di solito vissuto in almeno due continenti, assorbito diverse culture e viaggia, spesso freneticamente, per connettere i vari punti della multinazionale. Non è neanche detto che questo manager abbia la sua residenza aziendale nell’headquarter, spesso dipende da un centro decisionale di secondo livello in uno dei continenti in cui la multinazionale si è sviluppata. L’impatto occupazionale, lo sviluppo di tecnologie innovative e tutti gli altri benefici derivanti dall’insediamento su un’area di una multinazionale si possono avere anche con questi centri decisionali di secondo livello. Ecco perché solo una minima parte dei dipendenti inglesi di Uniliver è a rischio.

Le multinazionali di Levitt hanno però un headquarter originario, un luogo di nascita, e questo tende a non cambiare nel tempo, ad acquisire un elevato valore simbolico. Unilever stessa ne è un esempio: nel 1929 l’inglese Lever Brothers si fuse con l’olandese Margarine Unie, la neonata UniLever mantenne le due sedi di cui oggi si discute. La decisione che verrà presa tra un mese dal consiglio di amministrazione di Unilever sarebbe dovuta essere stata presa novant’anni fa: ma proprio il valore simbolico bloccò allora i consiglieri. Oggi la scusa della Brexit e la reale pressione degli azionisti e di quei 143 miliardi di dollari daranno una spinta sufficiente ai decisori.

Ad aiutarli, infine, ci sta pensando Mark Rutte, primo ministro olandese che lo scorso mese ha approvato una serie di misure fiscali che favoriscono i grandi investitori internazionali sul mercato olandese. Nessuno come lui, ex manager risorse umane di Univeler, sa quanto l’aspetto simbolico della sede di Unilever sia politicamente rilevante. Come lo era nel 1929 ai tempi di Lever Brothers e Margarine Unie.

Bernardo Bertoldi (Università di Torino – bernardo.bertoldi@unito.it)