familyandtrends ha già evidenziato come sia almeno una stranezza che meno del 10% dei family office si occupi dell’educazione delle nuove generazioni, questo nonostante sia l’obiettivo della grande maggioranza delle generazioni attuali fare in modo che chi verrà dopo di loro sappia gestire e godere della ricchezza accumulata.

In alcuni incontri delle ultime settimane, familyandtrends ha capito che questa “educazione” alla ricchezza non avviene perché c’è una differenza tra chi nella ricchezza è immigrato e chi nella ricchezza ci è nato.

I fondatori partono spesso da condizioni “normali”, per anni vivono dedicando, oltre loro stessi, tutto il capitale disponibile allo sviluppo dell’impresa e solo quando l’impresa raggiunge la maturità e loro una certa tranquillità si tolgono qualche soddisfazione. La storia è piena di fondatori divenuti ricchissimi che viaggiano su utilitarie o in seconda classe, che continuano ad andare in vacanza nella stessa casetta in luoghi poco glamour o che colpiscono per altre abitudini da persone normali. Queste abitudini sono un retaggio delle loro origini: per quanto possano sforzarsi sono “immigrati” nella ricchezza.

Chi ha vissuto per qualche anno all’estero, sa che per quanto si parli bene la lingua, si vivano gli usi e i costumi locali e ci si integri nella società, si resta degli immigrati: si sogna nella propria lingua, si tifa la squadra della propria città e la propria nazionale, ci si emoziona quando si ricordano i bei tempi di quando più giovani si viveva al paese natale o quando si incontra qualche compaesano. Le generazioni successive sono nate nella ricchezza, soprattutto quelle di oggi, che non hanno neanche visto nei loro genitori molte privazioni e spesso hanno anche poco sofferto della mancanza del tempo dei familiari. Come per i figli di immigrati, gli si può parlare delle tradizioni del proprio paese natale, della cultura d’origine, in alcuni casi gli si può anche insegnare la lingua e, magari, il dialetto ma resta il fatto che loro non sono immigrati: sono nati altrove.

La differenza immigrato/nativo crea (almeno) quattro dicotomie che rendono difficile il dialogo tra le generazioni.

La prima: creare una personalità vs essere parte. Le generazioni attuali hanno definito se stesse nel tempo, soprattutto i fondatori hanno forgiato la propria personalità indipendente, singola, monolitica… unica; le nuove generazioni devono imparare ad essere parte di una famiglia imprenditoriale, ad essere visti come figli, nipoti, parenti di qualcun altro. Nelle generazioni successive il cognome vale più del nome (senza contare quando questo è preso a prestito da qualche illustre antenato) e in ogni interazione della propria vita si è visti in relazione con la famiglia: nelle performance e nei risultati si è misurati in relazione ad altri familiari, nei successi o nelle fortune si è visti come raccomandati avvantaggiati per nascita, nelle relazioni personali si è visti come ricchi, fortunati, capricciosi.

La seconda: dedizione vs responsabilità. Le generazioni attuali, soprattutto i fondatori ma non solo, hanno dimostrato una dedizione sovrumana per l’impresa, si sono fatti da sé, “hanno avuto fame”; le generazioni successive come possono avere questa fame quando l’agiatezza ha riempito loro la pancia? Non devono (e non possono) avere la stessa fame! Devono avere la responsabilità. Chi ha creato o accresciuto non aveva molta responsabilità: all’inizio aveva poco da perdere, dopo avrebbe perso ciò che aveva creato e, soprattutto, sapeva ormai di essere arrivato e che aveva la capacità per non perdere. Chi succede deve avere la responsabilità di mantenere ed evolvere qualcosa di già grande: la responsabilità è doppia, è verso chi ha preceduto e verso chi ci sarà nel futuro, anche lontano. Può essere che la fame non sia la stessa, ma la responsabilità (doppia), se sentita davvero, è un movente almeno altrettanto forte, in tanti casi molto più forte.

La terza: creare vs adattare. Le generazioni attuali hanno creato o ingrandito, hanno sempre “pensato in grande”, hanno forgiato o cavalcato trend tecnologici o crescite di ricchezza nazionali. Le generazioni successive devono adattare ciò che è stato creato: l’evoluzione richiede una costante ma meno visionaria attività di aggiustamento dell’impresa e del patrimonio di famiglia ai cambiamenti del contesto esterno, e.g. società, mercati, concorrenti, etc. Adattare richiede competenze e attitudini diverse, esige di decidere cosa tenere e cosa cambiare di una tradizione di successo, richiede molto coraggio e molta umiltà e meno slanci temerari e atti di puro coraggio imprenditoriale.

La quarta: dissipare vs prendersi cura. Le generazioni attuali devono combattere contro il rischio di dissipare il patrimonio creato: creano governance aziendali, assumono manager, costituiscono family office, si avvalgono di consulenti e investment officer, organizzano consigli di famiglia, etc: tutto questo serve per fare in modo che ciò che è stato “accumulato” non venga “disperso”, si tratta di un qualcosa di nuovo che creato va preservato. Le generazioni successive, se chi li ha preceduti ha fatto un buon lavoro, non hanno più l’ansia di combattere contro il dissipare, quello che vedono è, per loro, sempre esistito non sentono che potrebbe sparire, che si potrebbe tornare a dove si era prima, semplicemente perché in quel prima non ci sono mai stati. Le generazioni successive devono “prendersi cura” di ciò che è stato fatto; di nuovo si tratta di un compito forse meno eclatante, che nutre meno l’ego, ma difficile e fondamentale.

Nelle Little Italy di inizio secolo a New York (e probabilmente in molte comunità di emigrati italiane oggi nel mondo) capitava di sentir litigare dei connazionali: i più vecchi urlavano concitati in italiano con parolacce colorite e dialettali, i più giovani rispondevano in inglese con l’accento della regione italiana d’origine: questo volenti e nolenti è il tipo di relazione cui devono prepararsi chi nella ricchezza è immigrato e chi ci è nato. Capirsi non è facile, ma parlarsi apertamente nella propria diversa lingua è necessario.