Il 23 luglio del 1923 Edoardo Agnelli, figlio del Senatore Giovanni, divenne presidente della Juventus: uno studioso di capitalismo familiare (anche se tifoso di colori più sanguigni) non può non chiedersi come si faccia a possedere una squadra per 100 anni.

Una ricerca del Dipartimento di Management dell’Università di Torino condotta dalla dott.ssa Erika Langellotto ha evidenziato quanto sia un fatto eccezionale: nei primi cinque campionati europei la proprietà più longeva è quella dei Nicollin dal 1974 proprietari del Montpellier, in Italia il Cittadella è posseduto dai Gabrielli da 1973. Analizzando gli altri sport si trovano i Chicago Bears, dove Virginia Halas ha ereditato dal padre George, ha 100 anni e la sua famiglia possiede i Bears da 102; e i New York Giants, dove John Mara è la terza generazione del fondatore Tim e proprietario del 50%.

Otto dei dieci proprietari più longevi nel mondo dello sport possiedono squadre di football americano. L’NFL ha regole chiare sulla proprietà: il principale proprietario deve avere almeno il 30%, gli azionisti non possono essere più di 25, gli azionisti non possono indebitarsi per più di 1,1 miliardi per acquistare la squadra, non possono essere soci: imprese quotate, fondi di private equity, fondi sovrani. Di tanto in tanto, la lega pensa di cambiare le regole: il calcio europeo forse dovrebbe copiarle, la Germania un po’ ci ha provato limitando la proprietà dei soci finanziari a meno del 50%.

Il primo effetto di restringere e qualificare i proprietari è evitare che in un mondo con sempre più ricchi, siano persone o stati, qualcuno usi lo sport per comprarsi a buon mercato non solo una squadra ma reputazione, fama e un po’ di potere di influenza nazionale o europeo. Questi proprietari arrivano promettendo soldi e vittorie, pochi le ottengono, tutti se ne vanno ottenuto quello che volevano, quasi nessuno guadagna. È possibile comprare la passione dei tifosi, il potere di influenza, la fama attraverso la proprietà di un oggetto? Si possono comprare la Roma o la Lazio ma non si possono comprare il Colosseo o la fontana di Trevi: siamo, naturalmente, tutti certi che è nostro dovere proteggere i secondi; siamo tutti davvero certi che non dobbiamo proteggere anche le prime?

Allo stato attuale chiunque si sia presentato con un po’ di soldi ha potuto comprare sotto l’entusiastica egida dell’UEFA: squadre, giocatori, ospitare finali, organizzare mondiali… sino ad arrivare a comprarsi i calciatori e farsi una lega fotocopia: siamo davvero certi che sia il modo migliore per sviluppare la cultura dello sport e rispettare la passione dei tifosi?

In questo contesto, solo se si è dei buoni proprietari si resta per cento anni passando attraverso evoluzioni tecnologiche (dalla radio alla pay TV), momenti di crisi (l’ultimo quest’anno), una guerra ed una pandemia mondiali. Un buon proprietario si prende cura del bene che possiede apportando capitali, rigore e conoscenza.

Sui capitali c’è poco da dire: per cento anni sono state investite somme ingenti non per un ritorno economico ma per prendersi cura di ciò che si possiede e per alimentare il tifo che nel calcio è amore puro, disinteressato, immutabile; è collegamento tra padri, figli, nipoti.

Il rigore ha permesso una gestione oculata e mai sbilanciata rispetto alle disponibilità dell’azionista; ha impresso un certo modo di fare calcio: quanto sia importante lo si capisce da quanto siano nefaste le conseguenze quando il rigore viene a mancare, e in questi cento anni è successo più di una volta.

La conoscenza è stato uno dei tratti distintivi della proprietà: negli anni venti Edoardo Agnelli portò alla Juventus, importandoli dalla FIAT, i principi di gestione aziendale professionale, dotò lo stadio dell’illuminazione e per la prima volta in Italia si poterono fare partite in notturna aumentando gli spettatori allora unica fonte di ricavo, ampliò gli ambiti sportivi alle bocce e al tennis, fu il promotore del campionato unificato su scala nazionale (noi oggi la chiamiamo Serie A allora sembrava una superlega).

Al centro il presidente Edoardo Agnelli accanto al Senatore Giovanni a Villar Perosa nel 1931, foto Wikipedia

La cosa più curiosa per uno studioso di capitalismo familiare resta il comportamento degli imprenditori rispetto alle generazioni future. La persona che afferma con fare saggio: “mio figlio deve essere libero, deve decidere lui se vorrà occuparsi dell’azienda di famiglia, è importante che segua le sue passioni, si faccia la sua vita, capisca e poi scelga” è la stessa che sin dai primi anni porta il figlio allo stadio, gli fa imparare la formazione a memoria, guarda con sospetto amichetti di fede diversa. Perché madri e padri si adoperano, spesso in modo scientifico, per trasmettere il loro tifo (una malattia!) ai figli convinti di fare bene e di fare del bene alle prossime generazioni e dichiarano puro disinteresse per la trasmissione del DNA imprenditoriale e della passione per l’azienda?

A questo dilemma familyandtrends non ha trovato risposta; può solo augurarsi che ci siano più imprenditori che trasmettano il tifo per l’impresa e più azionisti che celebrino anniversari centenari.