Uno dei dilemmi ricorrenti del capitalismo familiare è: perché un familiare dovrebbe essere più adatto degli altri otto miliardi di umani a guidare l’impresa?

Come per la maledizione della terza generazione o il moloch del controllo “di maggioranza” si tratta di idee che a forza di essere ripetute nei discorsi tra imprenditori finiscono per essere credute vere: sono semplici, ad effetto, incredibilmente appealing perché soddisfano il desiderio umano di trovare semplici relazioni di causa-effetto. Sfortunatamente in questo caso l’idea è sbagliata e non solo perché di quegli otto miliardi la selezione reale avviene su qualche decina (quando va bene).

Il primo errore è pensare che le figure dell’imprenditore e del manager siano mutualmente esclusive, mentre queste quando convivono sono una fonte inesauribile di vantaggio competitivo perché si rafforzano vicendevolmente. Si tratta di enantiodromia, concetto che Eraclito usa per spiegare come due opposti possano svilupparsi in armonia. I due “opposti” devono essere diversi ma forti, nel mondo reale vedere la relazione che si crea tra un imprenditore e un manager e come assistere ad una partita di tennis: quando da entrambe le parti c’è capacità e dedizione la palla è tesa e gli scambi avvincenti; quando una delle due parti è debole, l’altra è costretta a lanciare “pallette” al di là della rete e la partita diventa un noioso allenamento con scarsi risultati.

Il secondo errore è logico. La scelta di un manager è di per sé la scelta di una strada che si intende percorrere. Se nella Seconda guerra mondiale fosse stato scelto Halifax invece di Churchill si sarebbe firmata una pace con i nazisti prima dell’estate del 1940, quando si sceglie un manager con esperienza internazionale rispetto ad uno esperto di turnaround o di produzione si disegna un certo tipo di futuro. Chi fa questa scelta deve avere un’idea chiara del futuro che si vuole realizzare. All’obiezione “il manager lo sceglie il consiglio di amministrazione” va fatta seguire la domanda, chi sceglie i consiglieri? Quale ruolo deve avere la famiglia imprenditoriale in quel consiglio?

Come mai l’idea di imprenditore e manager come mutualmente esclusivi ha avuto così successo? A parte consulenti che predicano una non meglio specificata “managerializzazione” delle imprese familiari e, forse, qualche famiglia imprenditoriale che cerca di togliersi delle responsabilità, l’idea nasce alla fine della seconda guerra mondiale quando, nell’infanzia della teoria manageriale, Chandler pubblica The Visible Hand per dimostrare che il successo delle grandi corporation americane non è frutto del mercato, della “invisible hand” di Adam Smith, ma di una nuova figura: il manager professionale che domina le forze di mercato. Il libro è del 1977 e poco prima erano stati pubblicati i due libri su cui si fonda la teoria manageriale attuale: il libro di teoria del professore Peter Drucker, The Concept of the Corporation del 1954, e il libro di pratica del manager Alfred Sloan, My Years with General Motors del 1963. In quel periodo, il sistema organizzativo dell’esercito americano importato nelle imprese aveva avuto talmente successo da far dimenticare che all’impresa servono entrambe le figure..

L’imprenditore deve avere un orizzonte di medio lungo termine, vedere le opportunità e disegnare come perseguirle cercando ed assicurando le risorse necessarie, conoscere le dinamiche competitive e le direttrici di sviluppo del settore, proteggere ed evolvere l’essenza imprenditoriale e la cultura aziendale; il manager deve avere un orizzonte di breve medio termine, gestire la complessità, guidare il team manageriale e l’organizzazione, allocare risorse, fare problem solving, definire budget, assicurare efficienza di esecuzione. All’imprenditore è chiesto il coraggio al manager la competenza. Tra gli otto miliardi di persone ce ne sono che hanno visione di medio lungo termine, conoscono a fondo un settore e hanno coraggio? Certo: sono gli imprenditori!

Possono esistere imprenditori-manager e manager-imprenditori? Esistono ma non si può sempre puntare a trovare figure eccezionali e molto rare e non solo perché trovarle tra otto miliardi è un compito arduo. Ogni volta che si forza un’organizzazione aziendale per farla essere solo “imprenditoriale” o solo “manageriale” la si impoverisce e si mette a rischio o la sua capacità di costruire il futuro o di eseguire il presente.

Possono esistere aziende solo manageriali o solo imprenditoriali? Certo e per alcuni periodi può essere un bene. Il “breveterminismo” americano, ad esempio, è come una gara di Formula 1, dove il percorso è definito e la massimizzazione della performance è chiave, in questo caso si può avere un solo pilota super professionale che spinga al massimo i risultati dei prossimi tre/sei anni. Quando il contesto esterno diventa più instabile il breveterminismo diventa rischioso; in un rally o in una gara nel deserto dove capire quale sia la strada e l’efficacia creativa sono altrettanto importanti, ci vuole un co-pilota, qualcuno che identifica la strada migliore e “guida il guidatore”.

Forse il capitalismo familiare invece di chiedersi perché un familiare dovrebbe essere meglio di altri otto miliardi di manager che bussano alla porta dell’azienda, dovrebbe a chiedersi quale debba essere il ruolo della famiglia imprenditoriale una volta scelto il miglior manager tra gli otto miliardi di candidati.