Ingvar Kamprad, fondatore di Ikea, ha reso pubbliche le dimissioni dai due trust che possiedono proprietà intellettuale, marchio e attività commerciale del colosso dell’arredamento. Il commento ricorrente da noi è stato: «Ecco una grande impresa che soffre di passaggio generazionale come la piccola impresa italiana». Al di là del trascurare che in Italia il 60% delle imprese quotate e oltre il 50% di quelle con più di 50 milioni di fatturato sono familiari, gli esperti sono talmente tormentati dal passaggio generazionale che molti dei nostri imprenditori hanno finito per esserne terrorizzati.

La buona notizia è che il passaggio generazionale è una frottola inventata da chi guarda dal di fuori le aziende familiari e si aspetta un miracolo che faccia transitare capacità, visione, storia di un predecessore nel successore. Un po’ come se a Patroclo fosse bastato indossare l’armatura per diventare Achille.
Pensare in termini di passaggio generazionale genera una lacerazione tra chi “dovendo passare” deve rassegnarsi a finire e chi “dovendo ricevere” deve dimostrarsi all’altezza. Il passaggio generazionale non esiste, esiste la necessità di dare continuità all’azienda. Il passaggio è un momento di rottura, il contrario della continuità. La preoccupazione dev’essere rivolta a creare quanto serve all’azienda per continuare la storia di successo. Tutti gli imprenditori affermano che l’azienda viene prima della famiglia: l’importante è vincere la guerra di Troia non avere un nuovo Achille, che come i grandi imprenditori non è clonabile.