familyandtrends non è contrario a che il management faccia quanto indicato nel titolo: è preoccupato che tutti capiscano cosa il titolo voglia dire e che il significato sia sufficientemente univoco da poter permettere un fruttuoso scambio di opinioni. familyandtrends non può certo erigersi a paladino della lingua italiana, se non altro perché spesso pecca di refusi, ma si auto-riconosce la qualità di parlare in modo semplice. Presentare le proprie opinioni e comprendere a fondo quelle degli altri sono basi fondamentali per prendere decisioni migliori in azienda (e non solo). Parlare in modo chiaro e semplice è un elemento fondamentale di questo processo. Il buzzwording è il contrario di parlare in modo chiaro.

Il termine buzzwording si potrebbe tradurre in “parlare in gergo” ma ha un significato più specifico.  Hallgreen e Weiss nel 1946, osservando gli studenti di Harvard, notarono che quelli che nella discussione dei casi aziendali sapevano di meno tendevano a usare termini gergali più complessi per “riempire” i loro interventi. Ancora oggi se un docente esclama “stop buzzwording me” significa che il contributo alla discussione non è stato un granché.

È buzzworing dire “L’azienda ha migliorato le perfomance attraverso un approccio olistico alla profittabilità” per dire “l’azienda ha aumentato i prezzi e abbassato i costi variabili”, “disintermediare gli added value network” per dire “andare a valle della catena del valore verso il cliente”. Nel caso siate interessati ad altri esempi, esiste un divertente sito che genera buzzword in modo automatico; o in buzzwording: una piattaforma di deep AI che interagisce con umani creando paradigmi complessi al fine di offrire visioni strategiche controintuitive.

Il buzzwording viene usato principalmente in due frangenti. Il primo, quando quello che diciamo ci sembra troppo semplice, spoglio, modesto e per dargli importanza aggiungiamo qualche parolone complicato dimenticandoci che è il contenuto e non la forma che conta nell’esprimere le proprie opinioni e che è di grande importanza che le nostre opinioni siano comprese più che “facciano colpo”.

Il secondo, quando vogliamo far capire che siamo esperti e vogliamo parlare a esperti utilizzando il “nostro” gergo tecnico. Ad esempio dicendo: “la blockchain pos è più evoluta di quella pow” per dire “la blockchain che richiede un coinvolgimento delle controparti (proof of stake) è più evoluta di quella che richiede un lavoro (prove of work) di un miners”. In questo caso, ad esempio, la parola miners può essere accettabile, identifica un ruolo chiave nella tecnologia della blockchain: non si tratta di voler prediligere l’italiano all’inglese ma di rendere (e avere) chiaro ciò che si dice.

Il buzzwording è male perché crea indeterminatezza e incomprensione.

Un esempio di indeterminatezza è il termine “tema” che in azienda, nelle scuole di management e, ahimè, ormai anche nel linguaggio comune può voler dire: argomento, problema, punto di discussione e quasi ogni altra cosa. “Tema” per chiarezza non centra niente con il significato italiano, è la traduzione di “issue” che in inglese vuole in effetti dire un po’ tutto: problema, questione, punto, argomento, edizione, emissione, sfogo, distribuzione etc. In una discussione basta affermare “questo è un tema” per creare indeterminatezza: è un argomento da discutere? Un problema da risolvere? Qualcosa di cui preoccuparsi? “Tema” è stato talmente abusato che viene usato anche come intercalare in frase tipo “il tema è che dobbiamo pensare come agire…” o “dobbiamo decidere se procedere con l’investimento: questo è il tema!”. Un secondo esempio di indeterminatezza è l’aggettivo “importante” che viene usato per dire qualunque cosa da rivelante a potente, da grande a prezioso: “il flusso di richieste che abbiamo avuto è stato importante”, “lo sforzo è stato importante”, “il numero di persone e di like è stato importante”. Il risultato è che chi ascolta sa che ascolta qualcosa di “importante” ma non ha le idee chiare sul concetto: il miglior punto di partenza per prendere decisioni imprecise.

Call for Brevity, Winston Spencer Churchill

Il caso più grave di incomprensione è “creare valore”. Da fine anni ’90 “creare valore” è stato un mantra del management: molti lo hanno usato a profusione. “Valore” nella teoria manageriale ha due significati: ROI – WACC e WTP – costi. Nel primo caso è una definizione finanziaria resa famosa da Modigliani e Miller che indica una creazione di valore data da un ritorno sull’investimento (Return On Investment) superiore al costo medio del capitale (Weighted Average Cost of Capital); nel secondo è una definizione strategica resa famosa da Porter e Brandenburger che indica una creazione di valore data da una disponibilità a pagare del consumatore finale (Willingness To Pay) superiore ai costi che si hanno per produrre e rendere disponibile quanto il consumatore desidera. Ogni volta che si afferma “vogliamo creare valore” è bene chiedersi a quale dei due si faccia riferimento, anche perché i due “valori creati” sono spesso contrapposti: aumentando il prezzo si aumenta il valore finanziario ma si abbassa il valore per il consumatore.

Volendo fare una sintesi di buzzword, si potrebbe dire che: “È certamente un tema che il management debba creare un importante valore ma dovremo chiederci quale sia l’effettivo valore di porsi tutti questi temi. Ogni volta che con un approccio olistico affrontiamo temi rigenerativi è necessario assicurarsi che il valore sia creato in modo sostenibile, circolare ed inclusivo ed importante, altrimenti sarebbe un tema che andrebbe affrontato in modo sistemico”.

Ecco perché è meglio parlar chiaro e scambiare opinioni in modo diretto è il primo requisito perché in azienda si possano prendere decisioni migliori e in accademia la teoria manageriale possa progredire.