Il grido di allarme per le aziende del made in Italy acquisite da stranieri è ormai così ricorrente da essere diventato una cantilena. familyandtrends crede che quando esiste un miglior proprietario, è bene per l’azienda che arrivi un nuovo azionista con più capacità di far crescere e di investire.

C’è però da osservare che nel settore della moda il miglior proprietario è sempre uno straniero: la cosa ha meritato qualche approfondimento ed il risultato è che i colpevoli sono i professori italiani (anche di chi scrive, sia bene chiaro) che non hanno spiegato due teorie manageriali che avrebbero permesso alla nostra industria del Made in Italy di essere ancora la prima al mondo.

Il Made in Italy nasce quando, alla fine del 1944, viene aperto su richiesta degli alleati a Firenze il primo Allied Forces Gift Shop. Il negozio è aperto da Giovanni Battista Giorgini, un imprenditore che sin dal 1924 aveva un ufficio a New York e vendeva ai department store americani l’artigianato fiorentino. L’iniziativa ebbe un tale successo che gli alleati gli chiesero di aprirne anche a Milano e Trieste. La guerra è finita, i soldati sono i clienti più ricchi in un mercato dove per il resto della popolazione i problemi sono ben altri, e sono clienti euforici per non dover più rischiare la vita e che, per anticipare la gioia del loro ritorno a casa, mandano qualche regalo o comprano qualcosa di bello con cui presentarsi.

La teoria del diamante di Porter (un’altra che non spieghiamo abbastanza) afferma che per creare un settore industriale di successo è necessaria una domanda locale sofisticata che costringa i produttori a cimentarsi con richieste difficili. Negli Allied Forces Gift Shops per la prima volta il Made In Italy si è trovato un enorme quantità di domanda ricchissima e sofisticata e per soddisfarla ha dovuto sofisticare la sua tradizionale capacità artigianale (i fattori di input nella teoria di Porter). Giorgini aveva così chiara la teoria di Porter (prima che il suo autore proprio studiando i distretti industriali italiani la concepisse) che continuò a cercare domanda sofisticata con cui far crescere il Made In Italy: quando i soldati se ne furono andati, il 12 febbraio 1951 organizzò la “First Italian High Fashion Show” cui parteciparono sei dei più grandi compratori dei grandi Department Store americani. Dall’anno dopo l’evento si spostò alla sala Bianca di Palazzo Pitti: il resto è noto.

Da quel momento il Made In Italy fu uno degli attori che fece per una nicchia di clienti ricchi il lavoro di offrire abiti, scarpe ed accessori per farli sentire eleganti e alla moda. Il lavoro era “semplice”: la domanda era sofisticata, si trattava di una nicchia che conosceva bene le caratteristiche dei prodotti che acquistava, e“modulare” nel senso che il cliente acquistava il capo e poi integrava da sé il prodotto con altri per ottenere il suo proprio gusto nel vestirsi e mostrarsi.

Con il tempo e l’aumento della ricchezza media, il mercato passò da una nicchia di ricchi ad un segmento di consumatori desiderosi di essere più ricercati nel vestirsi e nel loro mostrarsi alla moda. La nascita di questo mercato di nuovi consumatori si può datare nel 1981 con l’apertura a Milano del primo Emporio Armani e con le parole del suo fondatore: “un contenitore di capi, accessori e idee, destinato a un pubblico trasversale, cosmopolita e metropolitano”. In questo caso la domanda sofisticata era rappresentata da un grande segmento di mercato di giovani, non solo italiani ma europei ed americani, che erano molto più ricchi e molto più pronti a spendere dei loro genitori e che volevano lasciare alle spalle le lotte e le rivendicazioni del ventennio precedente, fossero queste le atrocità del terrorismo italiano, i movimenti sessantottini francesi o le marce per la pace americane. In Italia questo è stato il momento della “Milano da bere”: la nascita dell’epoca dei grandi stilisti che in quell’ecosistema primordiale dello stile hanno trovato le condizioni della teoria del diamante di Porter: domanda sofistica, input per soddisfarla, fornitori di qualità, capacità di competere e collaborare tra loro.

Partendo da sinistra: Laura Biagiotti, Mario Valentino, Gianni VersaceKrizia, Paola Fendi, Valentino Garavani, Gianfranco Ferrè, Mila Shon, Giorgio Armani, Ottavio Missoni, Franco Moschino e Luciano Soprani.

Come è possibile che con il parterre de roi della foto l’Italia non abbia la più grande industria dell’eleganza mondiale? In questi quarant’anni i professori non sono stati capaci di spiegare ai manager del Made in Italy la legge della conservazione dei profitti attrattivi di Christensen (la seconda teoria che noi professori non abbiamo insegnato abbastanza). La legge dice che in un settore industriale c’è una certa giustapposizione di architetture modulari ed interdipendenti sottoposte ad un continuo processo di commoditizzazione e decommoditizzazione per ottimizzare ciò che non è“abbastanza buono” per il cliente. La legge stabilisce che mentre il profitto resta stabile nel continuo modificarsi delle architetture e dei processi, cambia quali imprese lo catturano, perché cambia l’anello della catena dove si migliora ciò che non è “abbastanza buono” per il consumatore.

Cosa è cambiato nel settore? Il numero di consumatori di eleganza e moda nel mondo è cresciuto a dismisura per l’effetto combinato dell’aumento delle persone, del loro reddito e del desiderio di usarne una parte crescente per il proprio stile. I consumatori sono però anche molto meno competenti riguardo eleganza e gusto, ciò che per loro non è “abbastanza buono” è la possibilità di comprare in un negozio cui possono accedere nel loro paese o altrove mentre viaggiano (si pensi ai turisti dello shopping in coda nelle grandi città europee) e dove possono comprare eleganza e gusto certificata dal venditore, data l’impossibilità di definirli da soli (si pensi a stranieri con capi improbabili ma orgogliosamente marchiati). In questo contesto competitivo è necessario che la produzione di stile sia integrata con la distribuzione, la comunicazione, il marchio. Inoltre, è necessario conoscere bene i vari segmenti di questo grande mercato dello stile e dell’apparire in modo da proporre il marchio attraente per il giusto segmento intercettando la domanda dove si trova e con una distribuzione sofisticata. In questo contesto lo stilista diventa una commodity, un bene fungibile: bisogna avere a disposizione tanti stili e tanti stilisti per poter offrire un prodotto adatto al gusto del segmento che passa davanti ad una determinata location.

Questa integrazione tra stilisti, distribuzione e batteria di marchi è stata necessaria per catturare la parte di profitti attrattivi del settore e non è stata fatta dai maestri di stile ed eleganza che hanno creato il Made in Italy ma da imprenditori esperti di M&A e forgiati nel turnaround di aziende della distribuzione al dettaglio, Francois Pinault di Kering, o di conglomerati tessili con attività di distribuzione, Bernard Arnault di LVMH (il fatto che questi conglomerati non abbiano successo con le scarpe e fatichino con il formale maschile è spiegabile ma richiederebbe un altro familyandtrends).

Non è un caso che tra i pochi italiani indipendenti sia rimasto Armani: il primo ad aver pensato alla distribuzione diretta e ad ampliare i segmenti raggiungibili creando fighting brands come Exchange ed Emporio. Negli ultimi vent’anni la distribuzione Armani si è evoluta da AX a GA/Privè passando per Emporio è divenuta sempre più diretta nella ricerca di un costante contatto con i segmenti di riferimento. Certo un marchio solo, anche se gestito con grande competenza manageriale, non permette di mixare una scuderia di marchi con i flussi di domanda nella giusta location ma costringe a focalizzarsi su pochi segmenti con un posizionamento molto differenziato, Armani in Italia, Hermes in Francia dimostrano che si può fare, ma solo quando si ha uno stile unico e una base clienti sufficientemente fedele e al prezzo di non crescere oltre la dimensione di quella base clienti. Cosa si può fare oggi? L’Italia è una miniera inesauribile di eleganza, di gusto, di saper vivere, una miniera che può creare nuovi maestri dell’eleganza a patto che questi possano accedere alla domanda sofisticata di oggi, quella della ricchezza globale, non raffinata e non educata all’eleganza. Questa nuova generazione di stilisti ha bisogno di una grande impresa che possa connetterli con quella domanda: non è mai troppo tardi per dimostrare che il Paese più bello al mondo sa ancora produrre le cose più belle per il mondo.