Nell’articolo “Gli imprenditori italiani hanno la tentazione di fare i rentier senza più gestire imprese ed idee: la vera forza dell’industria, lezioni dai casi Benetton e Fiat” si evidenzia il rischio di gli imprenditori italiani troppo focalizzati sul capitale, privi di “animal spirits” e con l’alibi di essere prigionieri di un paese con troppi vincoli.

Ha senso ragionare su questi punti perché a metterli sul tavolo è Ferruccio De Bortoli, uno dei più profondi conoscitori dell’imprenditorialità italiana e uno dei più acuti giornalisti del Paese, e perché si tratta di peccati mortali per il capitalismo familiare; mortali nel senso che se compiuti distruggono l’impresa. Andiamo per ordine.

Primo, focus sul capitale e non sull’impresa. A primo acchito può sembrare buffo che dopo anni di accuse di essere “capitalisti senza capitale” oggi si critichi il capitalismo familiare per aver fatto diventare “l’Italia un paese di family offices”, ma partiamo dai casi citati che familyandtrends ha affrontato negli ultimi mesi. Per leggere il caso FIAT è necessario considerare un settore ipercompetitivo in cui contano i continenti e non gli stati e capire la funzione di buoni azionisti che hanno scelto di avere gli Agnelli ed i Peugeot (e non lo stato francese). Per evitare che il caso Benetton faccia passare gli imprenditori per mangia-manager o i manager per inaffidabili bisogna considerare la sinergia necessaria tra imprenditore e manager e non pensare che l’uno escluda l’altro. De Bortoli generalizza dai due casi una “tendenza alla finanziarizzazione” e una “rivoluzione antropologica fatta di apertura ai capitali, quotazioni, fondi comuni etc”. Alla finanziarizzazione, però, il capitalismo familiare si è dovuto adattare, non l’ha né prodotta né voluta: nel 1980 il PIL mondiale e gli asset finanziari erano entrambi pari a 10 bilioni (migliaia di miliardi) di dollari, in cinquant’anni tra abbandono di Bretton Woods (1971), gestione di crisi immobiliari (1991), di consumo (11/9/2001), di liquidità (2009-10), di debiti sovrani (2012-13), covid (2021) e quantitative easing usato un po’ per tutte le occasioni, il PIL è arrivato a circa 100 bilioni mentre gli asset finanziari sono ben oltre i 600. In un sistema economico in cui per ogni dollaro di produzione reale ce ne sono 6 di capitale in cerca di rendimento è necessario scendere a patti con la finanza. Gli imprenditori restano di sinistra, i.e. sinistra di stato patrimoniale dove ci sono investimenti, brevetti, fabbriche, marchi, magazzini, crediti etc, ma non possono non trattare con la destra, i.e. dove ci sono il capitale dato dagli azionisti, dai finanziatori, dai fornitori etc. Alcuni casi recenti come IGT-Everi, Saras-Vitol, Tods-LCatterton (e Pirelli in un futuro prossimo) evidenziano come le famiglie imprenditoriali stiano sul mercato utilizzando tutte le opzioni che la finanza offre. Non accettando questa specie di compromesso storico tra industria e finanza diventerebbero semplicemente non competitive. 600 bilioni di dollari alla ricerca di investimenti pervadono l’economia reale: può piacere o non piacere ma per gli imprenditori è necessario adattarvisi.

Secondo, mancanza di animal spirits. “Sono pochissimi gli imprenditori che dopo aver venduto le loro aziende, decidono di riprovarci… anche la maggior parte dei figli … difficilmente tende a cimentarsi in nuove attività imprenditoriali… Preferiscono diventare gestori dei capitali familiari… è forse per questa ragione che [l’Italia] ha perso un po’ di quegli animal spirit innovativi così fecondi in altre stagioni?”. Quando un imprenditore vende, tra le ragioni c’è sempre, con diversi gradi di peso nella decisione, la mancanza di imprenditorialità intergenerazionale (o la convinzione errata di quella mancanza), di solito questa decisione viene presa avanti negli anni e quindi non si vede come si possa pensare a un fenomeno diffuso di imprenditorialità seriale. Certo resta il punto: ci servono molti più imprenditori, siano essi figli o fondatori: ma questo è un problema di cultura e di esempi da seguire, non di capitali. La riprova si ha proprio in quelle feconde stagioni cui fa riferimento De Bortoli: erano stagioni in cui il BOT senza rischio rendeva il 10% eppure si preferiva investire in azienda e non perché il contesto esterno fosse così favorevole, in quelle feconde stagioni a imprenditori e dirigenti si sparava. Ci servono molti più imprenditori di quelli che abbiamo perché, come ci ricorda De Bortoli, “il Paese si regge sulla loro capacità di produrre e, soprattutto, di esportare”. Non dobbiamo dimenticare di essere il secondo paese industriale dell’Europa e di esserlo non perché abbiamo grandi risorse naturali o energia a buon mercato (anzi): lo siamo perché siamo i migliori trasformatori di materie prime che ci tocca importare a caro prezzo (dovremmo infatti prestare più attenzione al valore aggiunto che alla produzione, ma questa è un’altra storia).

Terzo, alibi di essere prigionieri di un Paese con troppi vincoli. Certo agli imprenditori si può chiedere maggior impegno per l’evoluzione del proprio paese; ricordando loro, ad esempio, che Cavour prima di avviare il Risorgimento altro non era che uno dei più bravi, ed innovativi imprenditori piemontesi. A chi tra loro ancora si lamentasse della difficoltà del Paese, è bene citare un loro collega che è solito affermare: “non serve che sia più facile fare impresa, servono più imprenditori; esattamente come per avere più alpini non servono montagne più basse ma persone che amano e hanno voglia di salire le montagne che abbiamo”.